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ROMANTICISMO SU DUE RUOTE

Dal biciclo alla scatto fisso: storia del romanticismo su due ruote secondo Dudemag, il manuale di sopravvivenza per veri gentiluomini.

Roma, piazza della Madonna dei Monti, una di quelle tiepide giornate di aprile che ti fa pensare che non vorresti essere in nessun altro posto al mondo. È l’ora del tramonto, la birra è fresca e tutto è pace. Intorno alla fontana sono riuniti dei ragazzi con i calzoncini corti e i baffi. Hanno dei cappellini da ciclista con la visiera alzata e delle scritte esoteriche; hanno i baffi a manubrio e dei tatuaggi con le «corone» e dei bicicli stilizzati. Possiedono tutti una bicicletta e la guardano e la indicano come fosse l’unico oggetto dei loro discorsi. Discutono di cose oscure come il valore economico di un movimento centrale, del tipo di rapporto migliore per scivolare nel traffico. Chiamano la loro bici con un nome femminile pronunciato affettuosamente: «la Colnago»; «la Bianchi»; «la Cinelli». Alcuni le hanno dato anche un nome proprio.

Sembrano vivere in una dimensione diversa, una dimensione nella quale esistono soli con la loro bici, a correre in mezzo a colonne di macchine messe lì solo per essere superate.

Questa scena risulterà familiare a chiunque abbia meno di cinquant’anni e viva in una metropoli occidentale. E i confini si stanno ampliando, considerando questo documentario.

La bicicletta è infatti uno degli oggetti che negli ultimi anni è stato maggiormente investito di valori estetico-distintivi e il suo utilizzo in città – soprattutto nella versione a scatto fisso – è associato a quella indecifrabile setta satanica definita hipster.

Per chi non lo sapesse, la bici a scatto fisso è un artefatto sprovvisto di ruota libera, e che quindi per muoversi sfrutta solo il movimento umano, del piede sui pedali. Il più delle volte chi possiede una SF non gli monta i freni, lasciando al solo «bloccaggio» della ruota la possibilità di frenare. Il che la rende un mezzo piuttosto pericoloso per viaggiare dentro al traffico fuori di testa di Roma. Ma ai possessori di bici a scatto fisso questo interessa relativamente e, anzi, si può dire che il fattore «pericolosità» sia uno dei valori fondamentali delle tribù di ciclisti urbani.

Sì, perché nonostante vogliamo tenerci fuori dalla categoria-ombrello di hipster bisogna dire che attorno alla bicicletta sono nate delle vere e proprie sottoculture, o tribù, per dirla con Michel Maffesoli.

I ciclisti con la scatto fisso – detti anche fixettari – girano spesso in gruppo, frequentano le ciclo-officine, bevono in bar nei quali si mescolano moderatamente alla gioventù più cosmopolita della città. E poi organizzano della gare pazze semi-clandestine ispirate alla figura mitologica del bike messenger statunitense, a cui è stato dedicato anche un film del 1986 con Kevin Bacon schizzato per la strade di New York in sella alla bici a sfidare la morte.

Eppure la nostra non è la prima epoca nella quale l’uomo ha cercato di fare il fico guidando mezzi immotivatamente pericolosi. In questo articolo vorremmo ripercorrere la nascita del mezzo ciclistico, fino a risalire a un gruppo di pericolosi maniaci che potremmo ritenere gli antenati dei fixettari attuali.

La bicicletta così come la conosciamo oggi – e a definirla sono soprattutto la presenza di pneumatici e trasmissione a catena – fu brevettata solo nel 1879, mentre prototipi che le assomigliavano, e che andavano forte, giravano sin dal XVII secolo.

Nel 1791 un certo Conte Mede de Sivrac sfreccia sui viali di Port-Royal in sella a un mezzo di legno con due ruote e una testa luciferina. Si chiama celerifero e la propulsione è assicurata dai prodigiosi polpacci del conte che fanno perno sul terreno.

Il celerifero ha il difetto di non avere alcun meccanismo sterzante; il problema viene risolto nel 1817 da un un inventore di Mannheim – il barone Karl von Drais – che inventa un modo per sterzare senza fare manovre assurde sul terreno: nasce la «macchina per correre», detta anche draisienne, che in breve tempo si attira le peggiori prese per il culo del Baden.

Le cose vanno decisamente meglio in Inghilterra: un paese che ama versare il latte nel tè e indossare cappelli a cilindro alti tre metri non può che accogliere con entusiasmo l’eccentrico mezzo arrivato dalla Germania. Anche se, naturalmente, gli inglesi fanno le cose a modo loro: la draisienne diventa il dandyhorse e, invece di essere usato per i piccoli spostamenti nei villaggi, diventa l’aggeggio preferito dei dandy londinesi, che lo usano per fare i fichi nei parchi.

È la prima volta nella storia che un mezzo ciclistico viene utilizzato con finalità estetico-distintive, nel senso che intende Pierre Bourdieu: cioè la trasformazione di un oggetto di consumo in un bene simbolico, in grado quindi di manifestare la superiorità culturale — o semplicemente l’appartenenza a uno stile di vita — di chi lo possiede…

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Puoi trovare l’articolo integrale su Dudemag, manuale di sopravvivenza per gentiluomini e web partner ufficiale del Vintage Festival 2014
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Testi di Emanuele Atturo

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