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RETROMANIA

Perché ci piace indossare una t-shirt con James Dean? Perché preferiamo spendere 30 euro per un vinile piuttosto che 15 per un cd? Perché rubiamo la giacca di camoscio ai nostri padri e gli orecchini alle nostre nonne? Perché la cultura pop è ossessionata dal suo stesso passato? Perché gli anni ’70, ’80 e ’90 sono tornati a far così prepotentemente parte della nostra cultura pop? E soprattutto, come fare a parlare di “dibattito hipsterologico“ in maniera seria?

Perché ci piace indossare una t-shirt con James Dean? Perché preferiamo spendere 30 euro per un vinile piuttosto che 15 per un cd? Perché rubiamo la giacca di camoscio ai nostri padri e gli orecchini alle nostre nonne? Perché la cultura pop è ossessionata dal suo stesso passato? Perché gli anni ’70, ’80 e ’90 sono tornati a far così prepotentemente parte della nostra cultura pop? E soprattutto, come fare a parlare di “dibattito hipsterologico“ in maniera seria?

Simon Reynolds  risponde a tutte queste domande in Retromania , un volume di 470 pagine edito da ISBN Edizioni (2011) dove viene analizzata nella maniera più accurata possibile il processo retromane che la cultura pop degli Anni Zero sta vivendo.

Simon Reynolds è a detta del mondo intero il più autorevole critico musicale contemporaneo e vi prometto che – si sia d’accordo o meno – si tratta di uno che parla con cognizione di causa: british fino al midollo, collaboratore tra gli altri di Melody MakerThe New York TimesRolling Stone The Observer, è colui che ha coniato il termine post-punk e che ora riempie di analisi musicali le colonne del Guardian  e di diversi blog .

Quando nel 2011 uscì Retromania lo comprai subito e – all’alba dei miei vent’anni, ringraziai molto Simon Reynolds perché credetemi che passare l’adolescenza sperando di essere catapultate nel ’72 non è sempre così affascinante come potrebbe sembrare e personalmente ho sempre voluto capire i motivi per cui avevo passato quegli anni dorati ad ascoltare dischi di gente ormai morta da tempo perché “tanto adesso fa tutto schifo”.

Poi arrivarono gli Strokes, i primi Arcade Fire e i Franz Ferdinand e la speranza nei confronti del presente tornò a farsi sentire, ma era proprio quell’indie rock a nascondere dietro una velata pellicola di innovazione una caterva  di reminiscenze al passato. E Reynolds in questo suo testo ce lo dice subito dalle prime pagine: tutta la questione sulla retromania è sorta gli anni 2000, «il millennio del riciclaggio».

The Strokes Vintage

Sia chiaro, le reminiscenze al passato ci sono sempre state e sempre ci saranno perché sono fisiologiche del processo evolutivo della musica, della cultura e della società in sé, ma nei cosiddetti anni ’00 è successo qualcosa di diverso.
In questi anni i giovani musicisti si esibiscono con la t-shirt strappata dagli stilisti (sì, anche l’abbigliamento dei Sex Pistols era deciso da Vivienne Westwood e Malcolm McLaren, ma questa è un’altra storia), quelli il cui viso glabro cela la pelle cadente delle vecchie rockstar nella maniera più evidente. Niente a che vedere con la pellaccia dura di Iggy Pop, la prestigiosa raucedine di Johnny Cash o gli acuti di David Bowie.

In ugual modo siamo lontani anche dall’analogia tra la nostra retromania e il periodo rinascimentale che venerava il classicismo. L’era pop moderna è ossessionata dal retrò«mania consapevole per uno stile di altri tempi».

Perché dunque l’antiquario sotto casa mia non ha la coda di gente fino fuori dalla porta? Perché questa è la prima volta nella Storia in cui la società cerca spunti dal passato più immediato.

Perché, perché, perché. Perché in un’epoca di iper-accelerazione e perenne istantaneità siamo così affascinati dal passato? Siamo noi giovani che non abbiamo più idee nuove? Che abbiamo perso i valori? Che non abbiamo sentimenti, stimoli e coraggio? La musica di adesso fa veramente così schifo rispetto a 40 anni fa? Non gliene frega più niente a nessuno di ascoltarsi un album intero e l’importante è solo fare skip?

Retromania Banner

La risposta è no, tranquilli tutti, la musica bella c’è ancora e i cultori della stessa sono più affiatati che mai nelle riviste, nei blog, nei forum, ma anche al bar.
Secondo però questo personale viaggio attraverso le strade degli ultimi vent’anni, quale l’analisi condotta da Reynolds, il primo aspetto che dovrebbe veramente farci riflettere è la digitalizzazione della musica.

Il Web, Amazon, YouTube hanno battuto a mani basse la tirannia dello spazio e del tempo e ci hanno portato a diventare vittime della nostra stessa voglia di immagazzinare notizie, foto e musica dipingendo un panorama che commistiona ricordi e attualità in un unico quadro.

Quella che Chris Anderson definisce «la teoria della coda lunga» è difatti una realtà visibile agli occhi di tutti: l’esplosione dell’iPod ha risvegliato l’ardore musicale sopito in parecchi fan che per la prima volta hanno potuto acquistare tracce singole invece che interi album e/o ritrovare edizioni inedite di album dimenticati anche da Dio (ma non da loro) grazie al semplice uso di un motore di ricerca. Un procedimento che secondo quanto riportato da Reynolds è la lampante conseguenza della crisi da iper-documentazione innescata dalla tecnologia digitale.

Il sistema di vendita digitale globale al dettaglio creato da internet ha inoltre spostato nettamente gli equilibri a favore del singolo e a svantaggio della massa, del blockbuster, delle superstar e dei boom commerciali, facendo vertere tutto l’interesse verso il super appassionato, verso quello che ci crede veramente.
La cultura di massa – come dice anche Seth Godin – si è evoluta: non si impegna più ad accaparrarsi la più alta percentuale di consumatori possibile e punta invece sulla “nicchia”.

Questo il motivo per cui oggi il nerd è di moda, il vintage è in passerella e comprare un montone degli anni ’70 per 10 euro è un vanto rispetto al Woolrich da 500. Perché appartiene ad un immaginario passato, perché è raro, perché è unico;
nonostante tutto ciò, prima o poi ritroveremo anche il montone in saldo da Zara a 14.90, ma non sarà mai la stessa cosa.

Retromania Hipster Girl

I capitoli successivi di questo prezioso volume  –nell’edizione italiana abilmente tradotto da Michele Piumini– ci parlano anche delle reunion, troppo spesso volte solo a creare clamore e introiti monetari, del flagello delle cover band, ma anche della vera essenza di Lady Gaga, che racchiude in sé la decadenza glam anni settanta (Bowie), il look eccessivo anni ottanta (Madonna), il neodark anni novanta (Marylin Manson) e l’electroclash dei primi duemila (Fischerspooner). Un mix tra passato e futuro, hipsteria e avanguardismo di massa che curato al minimo dettaglio ha permesso a Gaga di diventare l’icona pop dei nostri tempi.

Gli spunti, gli elementi da considerare e gli interrogativi a cui rispondere sulla questione sono tanti e difficili da risolvere perché l’epoca analizzata è ancora in corso, sono forse anche troppi per rimanere mentalmente stabili e probabilmente stiamo prima a capire se sia nato prima l’uovo o la gallina ma Simon Reynolds riesce a districare la situazione in maniera completa, chirurgica e magistrale.

«The future is unwritten», ha detto un giorno un grande ed ineguagliabile artista, ma quanto durerà ancora la retromania? Si rivelerà una fase storica o durerà per sempre?

Retromania Book Banner

Testo di Valentina Tonutti

Articolo a cura de L’Indiependente

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